Il medico che partecipa ad un atto clinico, che sa non essere eseguito correttamente, ha l’obbligo di opporsi e manifestare il proprio dissenso in cartella clinica e deve pretendere l’esame clinico omesso.
La presa in carico del paziente, nel momento dell’effettuazione dell’ intervento chirurgico al quale il medico partecipa, consegue l’ assunzione degli obblighi protettivi nascenti dall’instaurato rapporto protettivo e di controllo.
In materia di colpa medica nelle attività d’equipe, del decesso del paziente risponde ogni componente dell’equipe, che non osservi le regole di diligenza e perizia connesse alle specifiche ed effettive mansioni svolte. Si è infatti ripetutamente affermato che, qualora vi siano più titolari della posizione di garanzia, ciascuno è per intero destinatario dell’obbligo di tutela .
responsabilità della struttura per soffocamento alimentare di un paziente. contestazione perizia ctu
31/08/2020 n. 18081 - Cassazione civile sez. VI
1. La Corte d’appello di Roma ha confermato la decisione di primo grado che aveva rigettato la domanda risarcitoria proposta da BXXX. per i danni subiti in conseguenza del decesso della congiunta XX, avvenuto, mentre era ricoverata nella clinica (OMISSIS), per soffocamento alimentare.
Avverso tale decisione XX e XX, in proprio e nella qualità di eredi di B.C., propongono ricorso per cassazione affidato a quattro motivi, cui resiste la XXX, depositando controricorso.
L’altra intimata non svolge difese nella presente sede.
2. Essendo state ritenute sussistenti le condizioni per la trattazione del ricorso ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., il relatore designato ha redatto proposta, che è stata notificata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza della Corte.
I ricorrenti hanno depositato memoria ex art. 380-bis c.p.c., comma 2.
Fissata per la trattazione l’adunanza del 12 marzo 2020, a causa del sopravvenire dell’emergenza epidemiologica da COVID-19, in attuazione del D.L. 8 marzo 2020, n. 11, art. 1, il Primo Presidente, con decreto del 9 marzo 2020 (prot. Interno n. 526) ne ha disposto il rinvio a nuovo ruolo (come di tutte le cause fissate per le udienze e adunanze camerali in calendario nel periodo compreso tra il 9 e il 22 marzo 2020, con la sola eccezione – che qui non viene in rilievo – di quelle indicate nel cit. D.L., art. 2, comma 2, lett. g).
Quindi, in attuazione dei decreti del P.P. nn. 44, 47, 55 e 76, a loro volta attuativi del D.L. 17 marzo 2020, n. 18, art. 83, comma 7, convertito dalla L. 24 aprile 2020, n. 27, e successivamente modificato dal D.L. 30 aprile 2020, n. 28, art. 3, comma 1, lett. c), essendo stata prevista la possibilità, per la Sesta Sezione, di fissare adunanze camerali nel numero ivi precisato nel periodo dal 1 al 19 giugno, la presente causa è stata destinata per la trattazione in adunanza camerale nella data odierna, con decreto del Presidente titolare del quale è stata data rituale comunicazione alle parti.
CONSIDERATO
che:
1. Con il primo motivo i ricorrenti denunciano “omesso esame circa un fatto decisivo del giudizio”, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Lamentano in sintesi che la Corte d’appello, nonostante i rilievi degli appellanti che evidenziavano, anche sulla scorta di consulenza di parte, che, nell’occorso, sarebbe stato possibile e necessario praticare una tracheotomia, “si è limitata a disquisire in merito alla sola tecnica di (OMISSIS)”, adottata dai sanitari, affermando che era manovra idonea a salvare la vita: ciò in acritica adesione alle conclusioni rassegnate dal c.t.u., nonostante questi, specialista in psichiatria, non fosse dotato di specifiche competenze in materia.
Si dolgono, altresì, che sia stata ritenuta corretta l’esecuzione della manovra di (OMISSIS), nonostante la mancanza di prove al riguardo, che non fossero i documenti medici prodotti dalla controparte.
Segnalano ancora la contraddittorietà della valutazione dell’ausiliario che, pur avendo evidenziato che la paziente aveva difficoltà di autocontrollo alimentare e aveva manifestato una condotta alimentare caratterizzata dalla voracità, ha tuttavia poi negato sussistessero elementi clinici che deponessero per la necessità di un’assistenza particolare per lo svolgimento dell’attività alimentare.
2. Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano violazione e/o falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c., per non avere la Corte di merito operato un prudente apprezzamento della prova “specie in relazione alle considerazioni assorbenti di cui al motivo 1”, ciò traducendosi in un “omesso esame circa un punto decisivo del giudizio con violazione dell’art. 112 c.p.c.”.
3. Con il terzo motivo essi denunciano, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione dell’art. 61 c.p.c., e dell’art. 24 Cost., per avere ritenuto, senza darne adeguatamente conto, “chiaro e convincente” il parere espresso dal consulente tecnico d’ufficio, rigettando la richiesta di rinnovazione della c.t.u. medico-legale con la quale si era segnalata l’esigenza che, accanto ad una specialista in psichiatria, l’incarico fosse dato anche a un medico specialista del tratto orofaringeo o comunque ad un medico chirurgo.
4. Con il quarto motivo i ricorrenti deducono infine “carenza di motivazione”.
5. Il ricorso si espone ad un preliminare ed assorbente rilievo di inammissibilità, per palese inosservanza del requisito di contenuto-forma prescritto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3.
Risulta, infatti, totalmente omessa l’esposizione sommaria dei fatti, da detta norma richiesta a pena di inammissibilità del ricorso per cassazione, allo scopo di garantire alla Corte di cassazione di avere una chiara e completa cognizione del fatto sostanziale che ha originato la controversia e del fatto processuale, senza dover ricorrere ad altre fonti o atti in suo possesso, compresa la stessa sentenza impugnata (Cass. Sez. U. 18/05/2006, n. 11653).
La prescrizione del requisito risponde non ad un’esigenza di mero formalismo, ma a quella di consentire una conoscenza chiara e completa dei fatti di causa, sostanziali e/o processuali, che permetta di bene intendere il significato e la portata delle censure rivolte al provvedimento impugnato (Cass. Sez. U. 20/02/2003, n. 2602).
Stante tale funzione, per soddisfare detto requisito è necessario che il ricorso per cassazione contenga, sia pure in modo non analitico o particolareggiato, l’indicazione sommaria delle reciproche pretese delle parti, con i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che le hanno giustificate, delle eccezioni, delle difese e delle deduzioni di ciascuna parte in relazione alla posizione avversaria, dello svolgersi della vicenda processuale nelle sue articolazioni e, dunque, delle argomentazioni essenziali, in fatto e in diritto, su cui si è fondata la sentenza di primo grado, delle difese svolte dalle parti in appello, ed infine del tenore della sentenza impugnata.
Nel caso di specie il ricorso, come detto, omette del tutto tali requisiti contenutistici.
Prima dell’esposizione dei motivi, invero, il ricorso si limita a indicare le “parti della sentenza di appello contestate” e ciò fa attraverso la trascrizione di brevi stralci della sentenza (rispettivamente tratti dalle pagg. 4, 5, 6 e 7): stralci che attengono a distinti e specifici passaggi argomentativi e che, come tali, non consentono in alcun modo di avere una qualche contezza dei fatti sostanziali e processuali dibattuti nel corso del giudizio.
6. Stante tale preliminare e, come detto, assorbente rilievo è appena il caso di evidenziare che, comunque, anche i motivi di ricorso prospettano plurime ragioni di inammissibilità.
6.1. E’ palese, anzitutto, l’inosservanza dell’onere di specifica indicazione degli atti e documenti richiamati, imposto, a pena di inammissibilità, dall’art. 366 c.p.c., n. 6.
Il ricorrente si limita invero a richiamare la relazione di consulenza tecnica d’ufficio ovvero la perizia di parte o altri elementi di giudizio (informazioni tratte da internet) senza debitamente riprodurne il contenuto nel ricorso – salvo che per brevi stralci – e senza comunque puntualmente indicare in quale sede processuale risultino prodotti, laddove è al riguardo necessario che si provveda anche alla relativa individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta alla Corte di Cassazione, al fine di renderne possibile l’esame (v. Cass. 16/03/2012, n. 4220), con precisazione (anche) dell’esatta collocazione nel fascicolo d’ufficio o in quello di parte, rispettivamente acquisito o prodotto in sede di giudizio di legittimità (v. Cass. 09/04/2013, n. 8569; 06/11/2012, n. 19157; 16/03/2012, n. 4220; 23/03/2010, n. 6937; ma v. già, con riferimento al regime processuale anteriore al D.Lgs. n. 40 del 2006, Cass. 25/05/2007, n. 12239), la mancanza anche di una sola di tali indicazioni rendendo il ricorso inammissibile (cfr. Cass. Sez. U 19/04/2016, n. 7701).
6.2. Nel primo motivo, inoltre, il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non è dedotto nei termini in cui la giurisprudenza consolidata di questa Corte lo dice deducibile.
Varrà in proposito rammentare che l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella vigente formulazione (introdotta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, lett. b), convertito, con modificazioni, dalla L. n. 134 del 2012), applicabile ratione temporis, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia).
Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni del art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. Sez. U. 07/04/204, nn. 8053 e 8054).
Nella specie, le censure mancano di evidenziare un “fatto storico” e decisivo, il cui esame sia stato omesso, poichè non può ricondursi, di per sè, alla nozione di “fatto storico” (principale o secondario) la “consulenza tecnica di parte” in quanto tale ovvero la richiesta di rinnovazione della c.t.u..
Giova, infatti, precisare che il “fatto storico” di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, è accadimento fenomenico esterno alla dinamica propria del processo, ossia a quella sequela di atti e di attività disciplinate dal codice di rito che, dunque, viene a caratterizzare la diversa natura e portata del “fatto processuale”, il quale segna il differente ambito del vizio deducibile, in sede di legittimità, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, (v. Cass. 09/07/2019, n. 18328).
E’, pertanto, evidente che, non avendo i ricorrenti evidenziato quale “fatto storico”, decisivo, il giudice a quo abbia omesso di esaminare, la doglianza che lamenta una omessa e/o insufficiente motivazione si risolve nella prospettazione di un vizio di motivazione non coerente con il paradigma di cui all’attuale formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
6.3. Mette conto peraltro ancora rimarcare che, come ripetutamente rilevato dalla stessa ricorrente, la valutazione della Corte territoriale recepisce sul punto una valutazione del c.t.u. (ciò che com’è noto esaurisce i compiti motivazionali del giudice del merito salvo che non siano contro la stessa proposte tempestive e specifiche critiche, non meramente oppositive: v. ex multis Cass. 19/06/2015, n. 12703; 02/02/2015, n. 1815); a fronte di tale dato la ricorrente si limita a richiamare il diverso opinamento del c.t.p. sui vari temi in discussione, omettendo però di indicare se lo stesso sia stato effettivamente e immotivatamente negletto dal c.t.u. per il che avrebbe dovuto essere trascritta almeno la parte della relazione di consulenza tecnica d’ufficio a tale aspetto dedicata.
Anche, dunque, con riferimento al previgente testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non avrebbe potuto configurarsi un vizio di motivazione sindacabile in cassazione.
Secondo incontrastato indirizzo, infatti, il giudice di merito, quando aderisce alle conclusioni del consulente tecnico che nella relazione abbia tenuto conto, replicandovi, dei rilievi dei consulenti di parte, esaurisce l’obbligo della motivazione con l’indicazione delle fonti del suo convincimento, e non deve necessariamente soffermarsi anche sulle contrarie allegazioni dei consulenti tecnici di parte, che, sebbene non espressamente confutate, restano implicitamente disattese perchè incompatibili, senza che possa configurarsi vizio di motivazione, in quanto le critiche di parte, che tendono al riesame degli elementi di giudizio già valutati dal consulente tecnico, si risolvono in mere argomentazioni difensive (v. ex multis Cass. 19/06/2015, n. 12703; 02/02/2015, n. 1815).
6.4. Sotto il profilo della dedotta (con il secondo motivo) violazione dell’art. 116 c.p.c., è poi appena il caso di rammentare come, in tema di ricorso per cassazione, la violazione di detta norma processuale (la quale sancisce il principio della libera valutazione delle prove, salva diversa previsione legale) è idonea ad integrare il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, solo nell’ipotesi – certamente non ravvisabile nella specie – in cui il giudice di merito disattenda tale principio in assenza di una deroga normativamente prevista, ovvero, all’opposto, valuti secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza probatoria soggetta ad un diverso regime (Cass. Sez. U 05/08/2016, n. 16598; Cass. 10/06/2016, n. 11892; Cass. 20/10/2016, n. 21238).
6.5. Equivoco, contraddittorio e per nulla illustrato è poi il contestuale riferimento, nel secondo motivo, anche ad una asserita violazione dell’art. 112 c.p.c..
Varrà comunque in proposito rilevare che la violazione del principio della corrispondenza fra chiesto e pronunciato è in astratto apprezzabile solo con riferimento alle domande ed eccezioni in senso stretto non certo (come invece sembrano assumere i ricorrenti) in relazione alle valutazioni di merito dei fatti allegati (positivi o negativi) e delle prove acquisite a fondamento delle une o delle altre.
6.6. Il terzo motivo non illustra la pertinenza della evocata norma processuale (art. 61 c.p.c.), nè la ragione per la quale essa debba ritenersi nella specie violata.
Varrà comunque rammentare che, come questa Corte ha ripetutamente chiarito, l’eventuale nullità della consulenza tecnica è soggetta al regime di cui all’art. 157 c.p.c., avendo carattere relativo, con la conseguenza che il difetto deve ritenersi sanato se non è fatto valere nella prima istanza o difesa successiva al deposito della relazione del consulente (cfr.: Cass. 21/08/2018, n. 20829; 15/06/2018, n. 15747; 31/01/2013, n. 2251; 15/04/2002, n. 5422; 14/08/1999, n. 8659; 24/06/1984, n. 3743).
Generica e priva di contenuto censorio è anche l’evocazione dell’art. 24 Cost..
6.7. Altrettanto va detto con riferimento al quarto motivo, il vizio di “carenza motivazionale” essendo dedotto del tutto apoditticamente solo in rubrica, la successiva illustrazione concretandosi nella mera enunciazione di massime giurisprudenziali che tale vizio definiscono.
E’ appena il caso dunque di rilevare che non può nella specie dubitarsi che una motivazione esista e che non sia meramente apparente, consentendo la stessa di comprendere quale sia la ragione della decisione adottata (legittimità della convenzione e fondatezza della pretesa azionata).
6.8. Appare peraltro evidente che le censure svolte si volgono tutte, nella sostanza, ad invocare una diversa lettura delle risultanze procedimentali così come accertate e ricostruite dal giudice a quo, e sono pertanto da considerare del tutto irricevibili, volta che la valutazione delle risultanze probatorie, al pari della scelta di quelle -fra esse – ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, postula un apprezzamento di fatto riservato in via esclusiva al giudice di merito il quale, nel porre a fondamento del proprio convincimento e della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, nel privilegiare una ricostruzione circostanziale a scapito di altre (pur astrattamente possibili e logicamente non impredicabili), non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere in alcun modo tenuto ad affrontare e discutere ogni singola risultanza processuale, ovvero vincolato a confutare qualsiasi deduzione difensiva.
7. Il ricorso deve essere in definitiva dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna dei ricorrenti alla rifusione, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.
Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma del cit. art. 13, art. 1-bis.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso. Condanna i ricorrenti al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.050 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma del cit. art. 13, art. 1-bis.
Così deciso in Roma, il 16 giugno 2020.
Depositato in Cancelleria il 31 agosto 2020
paziente allergica agli antibiotici e morte per infezione
25/08/2020 n. 17696 - Sezione Terza
Ove sia dedotta la responsabilità contrattuale del sanitario per l’inadempimento della prestazione di diligenza professionale e la lesione del diritto alla salute, è onere del danneggiato provare, anche a mezzo di presunzioni, il nesso di causalità fra l’aggravamento della situazione patologica (o l’insorgenza di nuove patologie) e la condotta del sanitario, mentre è onere della parte debitrice provare, ove il creditore abbia assolto il proprio onere probatorio, la causa imprevedibile ed inevitabile dell’impossibilità dell’esatta esecuzione della prestazione. Ciò sul presupposto che nelle obbligazioni di diligenza professionale sanitaria il danno evento consta della lesione non dell’interesse strumentale alla cui soddisfazione è preposta l’obbligazione, cioè il perseguimento delle leges artis nella cura dell’interesse del creditore, ma del diritto alla salute, che è l’interesse primario presupposto a quello contrattualmente regolato (così, da ultimo, le sentenze 11 novembre 2019, n. 28991 e n. 28992, in linea con la sentenza 26 luglio 2017, n. 18392).
errore diagnostico - mancata lettura documentazione sanitaria
17/04/2020 n. 12353 - Cassazione penale sez. IV
1. Con sentenza del 21.12.2018, la Corte di appello di Palermo ha confermato la sentenza di primo grado che aveva dichiarato L.G. responsabile del reato di omicidio colposo della paziente Ca.Al., affetta da idrocefalo triventricolare.
Secondo la Corte territoriale il L. – medico di guardia in servizio il (OMISSIS) presso la U.O. di neurochirurgia dell’Ospedale Civico di (OMISSIS) – aveva sottovalutato colposamente le condizioni della paziente, nonostante avesse a disposizione gli esiti della TAC espletata presso il Policlinico universitario, omettendo di sottoporla tempestivamente ad intervento di derivazione liquorale esterna, volto a ridurre la pressione intracranica mediante la fuoriuscita dal cranio del liquido cefalorachidiano, in tal modo contribuendo a determinare un danneggiamento intenso ed irreversibile del cervello della paziente, cagionandone il decesso.
2. Avverso la sentenza propone ricorso per cassazione l’imputato, a mezzo del difensore.
Si premette che in sede di giudizio di appello è stata disposta la rinnovazione della istruzione dibattimentale, mediante la nomina di un collegio peritale cui è stato chiesto di accertare l’effettiva incidenza sull’evento morte della condotta del sanitario. I periti sono giunti alla conclusione che la TAC eseguita sulla paziente Ca.Al. alle ore 10.36 dai sanitari del Policlinico universitario di (OMISSIS) evidenziava un “quadro di idrocefalo drammatico” (pag. 10 relaz. peritale), per cui la paziente “sarebbe dovuta essere sottoposta immediatamente a posizionamento di derivazione ventricolare già al mattino” di quello stesso giorno ((OMISSIS)); “Una terapia medica antiedemigena, anche aggressiva…non avrebbe modificato, nella sostanza, il decorso clinico della paziente”; “Si ritiene altamente improbabile che se anche l’intervento…fosse stato eseguito immediatamente presso l’ospedale civico…la paziente si sarebbe salvata” (pag. 15).
Si tratta di conclusioni in relazione alle quali la Corte di merito avrebbe dovuto interrogarsi, in concreto, sulla corretta formulazione del problema causale, al fine di stabilire se un intervento tempestivo del Dott. L. avrebbe potuto effettivamente scongiurare l’esito infausto.
I) Con un primo motivo, si deduce violazione di legge e vizio di motivazione in ordine ai profili di colpa ascritti all’imputato e alla loro rilevanza causale rispetto all’evento contestato.
Si addebita all’imputato di non avere tempestivamente effettuato sulla paziente l’intervento di derivazione ventricolare, così determinando un grave ed evitabile peggioramento delle condizioni di salute della predetta che, in assenza di trattamenti adeguati (di natura farmacologica), causava l’exitus. E’ stato riportato in sentenza che, secondo i periti, anche qualora l’imputato fosse intervenuto tempestivamente, le possibilità di insuccesso sarebbero state intorno all’80/90% ma, ciò nonostante, i giudici hanno affermato che l’intervento di derivazione ventricolare “andava fatto comunque”.
La pronuncia di colpevolezza si fonda sui principi ermeneutici tracciati dalla nota sentenza Franzese (S.U. n. 30328/2002). Tuttavia, la Corte territoriale ha omesso di valutare che i fatti accertati dal collegio peritale offrivano l’evidenza che il quadro clinico della paziente, emerso dall’esame TAC encefalo eseguito alle ore 10.36, era già drammatico ed irreversibile all’atto del trasferimento (intervenuto a distanza di quasi quattro ore, alle ore 14.15) presso l’Ospedale Civico di (OMISSIS). Invero, a prescindere dalla espressa percentuale di insuccesso (80/90%) anche in caso di “tempestivo” intervento chirurgico da parte del Dott. L., il collegio peritale esprimeva la propria valutazione sulla scorta di dati scientifici di riferimento secondo le migliori conoscenze della disciplina di loro specifica competenza.
La lettura integrale della testimonianza dei componenti il collegio peritale consente, invero, di rilevare che una condotta alternativa dell’imputato, a distanza di 4 ore dalla esecuzione della TAC, non avrebbe potuto evitare, con alto grado di probabilità, l’evento morte. I periti hanno chiarito che: “Con un quadro così drammatico di idrocefalo, se non lo operi nelle prime due ore, il paziente è destinato ad andare male” (rectius: morire), “però parlare di percentuale è difficile, ma credo all’80, 90 per cento sarebbe andato male, comunque” (pag. 21 trascr. esame prof. F.).
La Corte distrettuale ha omesso di valutare che il giudizio fornito dai periti prescindeva da un mero dato percentuale, avendo gli stessi diffusamente ribadito la drammaticità delle condizioni neurologiche della paziente e la necessità di intervenire chirurgicamente nell’immediato, ovvero una volta conosciuto l’esito della TAC.
L’ulteriore addebito contestato, secondo cui il Dott. L. non avrebbe apprestato la doverosa vigilanza della paziente con i connessi congrui trattamenti farmacologici, è un addebito che la sentenza impugnata ha, ingiustificatamente, amplificato. I periti hanno chiarito che di fronte ad un quadro così drammatico ed al lasso temporale nelle more intercorso, nessuna terapia farmacologica sarebbe stata idonea ad incidere positivamente sulla sopravvivenza della paziente.
I giudici di merito hanno semplicemente preteso di desumere dalla condotta colposa del L. la responsabilità del decesso della sig.ra Ca., senza esaminare con rigore la configurabilità del nesso condizionante fra l’omissione addebitata e l’evento morte, trascurando altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo che avrebbero imposto l’esito assolutorio del giudizio.
E’ stato, infine, accertato che la scelta dell’imputato di differire l’intervento non ha determinato alcun aggravamento dei danni cerebrali della paziente, atteso che il quadro neurologico fornito dall’esame TAC delle ore 10.36 è rimasto pressochè immutato rispetto a quello fornito alle ore 19.07 dalla Risonanza Magnetica, come si evince dalla relazione dei periti nominati in sede di appello. Anche tale dato scientifico è stato totalmente disatteso dalla Corte palermitana.
II) Nullità della sentenza per omessa notifica all’imputato del decreto di citazione a giudizio.
Si deduce che in sede di appello è stata omessa la citazione a giudizio dell’imputato. La notifica della citazione non è stata effettuata nel domicilio dichiarato (presso la propria abitazione sita in (OMISSIS)) dal L., bensì nella casella di posta certificata dell’avv. Salvatore Gentile Alletto, sull’erroneo presupposto che quest’ultimo difensore fosse il domiciliatario dell’imputato.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. E’ pregiudiziale la trattazione del secondo motivo di ricorso, di carattere processuale, dal cui ipotetico accoglimento deriverebbe la nullità della sentenza impugnata.
La censura è inammissibile.
Costituisce, infatti, ius receptum il principio per cui la notificazione della citazione a giudizio mediante consegna al difensore di fiducia, anzichè presso il domicilio dichiarato o eletto dall’imputato, dà luogo ad una nullità di ordine generale a regime intermedio, perchè idonea comunque a determinare una conoscenza effettiva dell’atto in ragione del rapporto fiduciario con il difensore, sicchè tale nullità è soggetta ai termini di deduzione di cui all’art. 182 c.p.p., comma 2 (cfr. Sez. U, n. 58120 del 22/06/2017, Tuppi, Rv. 27177101; Sez. 4, n. 40066 del 17/09/2015, Bellucci, Rv. 26450501; Sez. 2, n. 35345 del 12/05/2010, Rummo, Rv. 24840101).
Nella specie non risulta che tale causa di nullità sia stata eccepita in sede di merito, nè il ricorrente allega alcunchè in proposito.
Ne deriva che la doglianza non è proponibile per la prima volta in sede di ricorso per cassazione, giacchè la detta nullità avrebbe dovuto essere dedotta, ex art. 180 c.p.p., prima della emissione della sentenza di appello, secondo quanto affermato dalla richiamata giurisprudenza della Corte regolatrice.
2. Il primo motivo di ricorso coglie, invece, nel segno, là dove censura i vizi logico-giuridici della sentenza impugnata in tema di accertamento del nesso di causalità.
3. Appare opportuno premettere qualche cenno sul tema in questione.
E’ noto l’approdo della giurisprudenza assolutamente dominante, secondo cui è “causa” di un evento quell’antecedente senza il quale l’evento stesso non si sarebbe verificato: un comportamento umano è dunque causa di un evento solo se, senza di esso, l’evento non si sarebbe verificato (formula positiva); non lo è se, anche in mancanza di tale comportamento, l’evento si sarebbe verificato egualmente (formula negativa).
Da questo concetto nasce la nozione di giudizio controfattuale (“contro i fatti”), che è l’operazione intellettuale mediante la quale, pensando assente una determinata condizione (la condotta antigiuridica tenuta dell’imputato), ci si chiede se, nella situazione così mutata, si sarebbe verificata, oppure no, la medesima conseguenza: se dovesse giungersi a conclusioni positive, risulterebbe, infatti, evidente che la condotta dell’imputato non costituisce causa dell’evento. Il giudizio controfattuale costituisce, pertanto, il fondamento della teoria della causalità accolta dal nostro codice e cioè della teoria condizionalistica. Naturalmente esso, imponendo di accertare se la condotta doverosa omessa, qualora eseguita, avrebbe potuto evitare l’evento, richiede preliminarmente l’accertamento di ciò che è effettivamente accaduto e cioè la formulazione del c.d. giudizio esplicativo (Sez. 4, n. 23339 del 31/01/2013, Giusti, Rv. 25694101). Per effettuare il giudizio controfattuale è, quindi, necessario ricostruire, con precisione, la sequenza fattuale che ha condotto all’evento, chiedendosi poi se, ipotizzando come realizzata la condotta dovuta dall’agente, l’evento lesivo sarebbe stato o meno evitato o posticipato (Sez. 4, n. 43459 del 04/10/2012, Albiero, Rv. 25500801). In tema di responsabilità medica, è dunque indispensabile accertare il momento iniziale e la successiva evoluzione della malattia, in quanto solo in tal modo è possibile verificare se, ipotizzandosi come realizzata la condotta dovuta dal sanitario, l’evento lesivo sarebbe stato evitato o differito (Sez. 4, n. 43459 del 04/10/2012, Albiero, Rv. 25500801).
L’importanza della ricostruzione degli anelli determinanti della sequenza eziologica è stata sottolineata, in giurisprudenza, laddove si è affermato che, al fine di stabilire se sussista o meno il nesso di condizionamento tra la condotta del medico e l’evento lesivo, non si può prescindere dall’individuazione di tutti gli elementi rilevanti in ordine alla “causa” dell’evento stesso, giacchè solo conoscendo in tutti i suoi aspetti fattuali e scientifici la scaturigine e il decorso della malattia è possibile analizzare la condotta omissiva colposa addebitata al sanitario per effettuare il giudizio controfattuale, avvalendosi delle leggi scientifiche e/o delle massime di esperienza che si attaglino al caso concreto (Sez. 4, n. 25233 del 25/05/2005, Lucarelli, Rv. 23201301).
Le Sezioni unite, con impostazione sostanzialmente confermata dalla giurisprudenza successiva, hanno enucleato, per quanto attiene alla responsabilità professionale del medico, relativamente al profilo eziologico, i seguenti principi di diritto: il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio controfattuale, condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica – universale o statistica -, si accerti che, ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta doverosa, l’evento non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva. Non è però consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma, o meno, dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale, poiché il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile, E’ noto l’approdo della giurisprudenza assolutamente dominante, secondo cui è “causa” di un evento quell’antecedente senza il quale l’evento stesso non si sarebbe verificato: un comportamento umano è dunque causa di un evento solo se, senza di esso, l’evento non si sarebbe verificato (formula positiva); non lo è se, anche in mancanza di tale comportamento, l’evento si sarebbe verificato egualmente (formula negativa)., all’esito del ragionamento probatorio, che abbia altresì escluso l’interferenza di fattori eziologici alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con “alto grado di credibilità razionale”. L’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale, quindi il ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante della condotta del medico rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo, comportano la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio del giudizio (Sez. U., n. 30328 del 10/07/2002, Franzese). Ne deriva che, nelle ipotesi di omicidio o lesioni colpose in campo medico, il ragionamento controfattuale deve essere svolto dal giudice in riferimento alla specifica attività (diagnostica, terapeutica, di vigilanza e salvaguardia dei parametri vitali del paziente o altro) che era specificamente richiesta al sanitario e che si assume idonea, se realizzata, a scongiurare o ritardare l’evento lesivo, come in concreto verificatosi, con alto grado di credibilità razionale (Sez. 4, n. 30469 del 13/06/2014, Jann, Rv. 26223901). Sussiste, pertanto, il nesso di causalità tra l’omessa adozione, da parte del medico, di misure atte a rallentare o bloccare il decorso della patologia e il decesso del paziente, allorchè risulti accertato, secondo il principio di controfattualità, condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica, universale o statistica, che la condotta doverosa avrebbe inciso positivamente sulla sopravvivenza del paziente, nel senso che l’evento non si sarebbe verificato ovvero si sarebbe verificato in epoca posteriore o con modalità migliorative, anche sotto il profilo dell’intensità della sintomatologia dolorosa (Sez. 4, n. 18573 del 14/02/2013, Meloni, Rv. 25633801).
Si tratta di insegnamento ribadito dalle Sezioni Unite, che si sono nuovamente soffermate sulle questioni riguardanti l’accertamento della causalità omissiva e sui limiti che incontra il sindacato di legittimità, nel censire la valutazione argomentativa espressa in sede di merito (Sez. U, n. 38343 del 24.04.2014, Espenhahn, Rv. 26110601). Nella sentenza ora richiamata, le Sezioni Unite hanno sviluppato il modello epistemologico già indicato nella citata pronunzia del 2002 che delinea un modello dell’indagine causale capace di integrare l’ipotesi esplicativa delle serie causali degli accadimenti e la concreta caratterizzazione del fatto storico – ribadendo che, nel reato colposo omissivo improprio, il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, che a sua volta deve essere fondato, oltre che su un ragionamento di deduzione logica basato sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo elaborato sull’analisi della caratterizzazione del fatto storico e sulle particolarità del caso concreto. In particolare, si è sottolineato che, nella verifica dell’imputazione causale dell’evento, occorre dare corso ad un giudizio predittivo, sia pure riferito al passato: il giudice si interroga su ciò che sarebbe accaduto se l’agente avesse posto in essere la condotta che gli veniva richiesta.
4. Nel caso di specie, il giudice a quo non ha fatto buon governo dei principi appena delineati.
La Corte d’appello, accertato che in caso di idrocefalo l’intervento da eseguire è quello di derivazione liquorale esterna (volto a ridurre la pressione intracranica mediante la fuoriuscita dal cranio del liquido cefalorachidiano), ha stabilito che fin dal momento in cui la persona offesa si era recata presso l’ospedale universitario Policlinico, le condizioni della stessa erano da ritenersi certamente gravi e tali da giustificare la necessità di un immediato intervento chirurgico per ridurre la pressione all’interno del cranio, avuto riguardo agli esiti della TAC. Ha quindi affermato che il L. aveva sottovalutato o misconosciuto la situazione in cui si trovava la paziente, non prestando la dovuta attenzione ai segnali che davano conto dell’aggravarsi dell’ipertensione endocranica, che avrebbero dovuto indurlo a praticare immediatamente l’intervento in questione.
Passando al tema del rapporto di causalità tra omissione ed evento, la sentenza impugnata ha riportato le conclusioni dei periti, secondo cui l’ingiustificato atteggiamento attendistico del sanitario “ha contribuito ad aggravare il quadro neurologico le cui lesioni erano, comunque, probabilmente già irreversibili”; precisandosi che, anche qualora fosse stata praticata un’appropriata terapia medica, la stessa sarebbe stata “probabilmente poco efficace”, ritenendo i periti “altamente improbabile che se anche l’intervento di derivazione ventricolare esterna fosse stato eseguito immediatamente presso l’ospedale civico, ovvero verso le ore 16.00-16.30 (poiché la signora Ca. arriva all’ospedale civico alle 15.19) dopo oltre 6 ore di una così grave e drammatica ipertensione endocranica, la paziente si sarebbe salvata”.
Nonostante tali conclusioni – che sul piano scientifico evidenziavano l’elevata improbabilità che dalla condotta pretesa dal sanitario sarebbe derivato un effetto salvifico, e quindi la riconducibilità di tale condotta ad una condizione negativa dell’evento -, la sentenza impugnata, in maniera contraddittoria ed illogica, ha desunto la sussistenza del nesso eziologico – in palese contrasto con quanto accertato dagli esperti – sulla base di labili e apodittici elementi indiziari, privi di fondamento scientifico o esperienziale, e come tali inidonei a fondare quel giudizio di “alta probabilità logica” necessario a fondare la prova in ordine alla sussistenza del nesso di condizionamento fra l’omissione addebitata e l’evento.
La Corte di merito, prescindendo dai dati medico-scientifici ricavabili dal parere degli esperti, ha menzionato, in proposito, elementi eterogenei e non conducenti, quali: la giovane età della paziente ((OMISSIS)) e l’assenza di patologie pregresse (fattori che non potevano che essere già stati considerati dai periti nell’ambito della loro complessiva valutazione del caso medico); la relativa semplicità dell’intervento di derivazione da adottare (dato inconferente rispetto alla problematica causale che qui rileva); la consapevolezza del L. della necessità di intervenire senza ritardo (aspetto che attiene alla colpa, ma non all’efficienza salvifica dell’intervento); il fatto che le condizioni nEurologiche della donna non avevano subito un immediato tracollo al momento dell’arrivo in ospedale, ma avevano subito un progressivo peggioramento (dato che contrasta con quanto accertato dai periti, secondo cui il danno era probabilmente già irreversibile e non era stata registrata alcuna modificazione del quadro clinico dalla TAC eseguita in mattinata rispetto alla Risonanza Magnetica eseguita in serata).
Nella sentenza impugnata vi è poi un’affermazione palesemente illogica e inconferente, oltre che erronea: la Corte sostiene che anche una percentuale di successo dell’intervento chirurgico pari al 10/20% “avrebbe avuto una valenza certamente più promettente e rassicurante, in termini di probabilità logica e secondo un giudizio di credibilità razionale, qualora l’imputato si fosse da subito ed adeguatamente attivato allorchè ha visitato il paziente”. Affermazione di per sè priva di significato, se si considera che quello che il giudice deve svolgere, in casi consimili, è un giudizio di “alta probabilità logica” e di “elevata credibilità razionale” fondato sulle evidenze scientifiche e su dati indiziari caratterizzanti il caso concreto, che consenta di affermare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che il comportamento omesso avrebbe salvato o prolungato la vita della paziente.
Si tratta, a ben vedere, di motivazione che denota come la Corte territoriale abbia fatto mal governo dei criteri di accertamento della riferibilità causale, in considerazione delle frequenze medio basse espresse dalla legge di copertura rassegnata dai periti. La Corte non ha adeguatamente elaborato il giudizio di tipo induttivo, sulla base della caratterizzazione del fatto storico e delle peculiarità del caso concreto, indicato dal diritto vivente quale paradigma motivazionale imprescindibile nell’accertamento della causalità omissiva; inoltre, non si è rigorosamente confrontata con le evidenze scientifiche che indicavano una bassissima probabilità di successo, anche qualora il L. avesse adottato tempestivamente l’indicato comportamento alternativo corretto.
Da questo punto di vista, la Corte distrettuale ha fatto sostanziale riferimento alla teorica della perdita di chance, espressa da un indirizzo giurisprudenziale esauritosi nei primi anni duemila, in base al quale, nella verifica del nesso di causalità tra la condotta del sanitario e la lesione del bene della vita del paziente, occorreva privilegiare un criterio meramente probabilistico, sulle possibilità di successo del comportamento alternativo. Si tratta di una valutazione che si pone in frontale – e non motivato – contrasto con le indicazioni ermeneutiche espresse dal diritto vivente, sul tema dell’imputazione causale dell’evento (cfr. Sez. 4, n. 24372 del 09/04/2019, Molfese, Rv. 27629203). Al riguardo, va qui ribadito che per offrire la prova del fatto il giudice non può attingere a criteri di mera probabilità statistica, ma deve fare riferimento al criterio della probabilità logica, intesa come “la verifica aggiuntiva, sulla base dell’intera evidenza disponibile, dell’attendibilità dell’impiego della legge statistica” rispetto al singolo evento oggetto dell’accertamento giudiziale (cfr. Sez. U, n. 30328 del 10/07/2002, Franzese, Rv. 22213801), secondo i noti principi dianzi richiamati.
In definitiva, l’analisi sul nesso eziologico è stata svolta dai giudici di merito in termini erronei ed insoddisfacenti, trascurando di valutare in termini rigorosi e scientificamente accettabili i dati indiziari disponibili, al fine di verificare se, ipotizzandosi come realizzata la condotta dovuta dal sanitario, l’evento lesivo sarebbe stato ragionevolmente evitato o differito con (umana) certezza (cfr. Sez. 4, n. 5901 del 18/01/2019, Oliva c/Navarra, Rv. 275122).
5. A questo punto della trattazione va considerato che il reato oggetto di imputazione è ormai estinto per intervenuta prescrizione. Il fatto-reato risale, infatti, al (OMISSIS), ed il termine massimo di prescrizione di sette anni e sei mesi risulta scaduto – senza sospensioni – in data 19.2.2019, in epoca successiva a quella di emissione della sentenza oggetto di ricorso (21.12.2018).
Da ciò discende che, agli effetti penali, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio perchè il reato è estinto per prescrizione, non emergendo dagli atti elementi evidenti e palmari di irresponsabilità del condannato, per una pronuncia nel merito più favorevole ai sensi dell’art. 129 c.p.p., comma 2.
Il ricorso va, invece, accolto, ex art. 578 c.p.p., ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili, stante la fondatezza del motivo in tema di nesso eziologico addotto dal ricorrente, con rinvio, ai sensi dell’art. 622 c.p.p., al giudice civile competente per valore in grado di appello.
Il giudice del rinvio provvederà anche alla regolamentazione delle spese tra le parti per questo giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, agli effetti penali, perchè il reato è estinto per prescrizione. Annulla la medesima sentenza, agli effetti civili, con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello, cui demanda anche la regolamentazione tra le parti delle spese di questo giudizio di legittimità.
Si dà atto che il presente provvedimento è sottoscritto dal solo presidente del collegio per impedimento dell’estensore, ai sensi del D.P.C.M. 8 marzo 2020, art. 1, comma 1, lett. a).
Così deciso in Roma, il 15 gennaio 2020.
Depositato in Cancelleria il 17 aprile 2020