negato rilascio del permesso di soggiorno per lavoro subordinato in presenza di una condanna in materia di stupefacenti

28/07/2020 n. 4797 - Sezione III

Le condanne in materia di stupefacenti sono automaticamente ostative, anche una sola condanna, qualunque sia la pena detentiva riportata dal condannato, non rilevando la concessione di attenuanti o della sospensione condizionale della pena, né la modalità di esecuzione della stessa, e che l’appellante è stato condannato dal Tribunale di Brescia, con sentenza del 26.10.2011, divenuta irrevocabile il 21.11.2011, per il reato continuato di detenzione e vendita illecita di sostanze stupefacenti ad anni uno e mesi sei di reclusione e alla multa di euro 6000.

I FATTI 
1.- Con ricorso al TAR per la Lombardia, sezione di Brescia, -OMISSIS-, il ricorrente impugnava il diniego di permesso soggiorno per lavoro subordinato di cui al decreto del Questore di Brescia Csat.A. 12/2015/Immig/IIsez/db/-OMISSIS-

La motivazione del provvedimento si fondava sulla condanna alla pena della reclusione e all’ammenda, riportata dal ricorrente il 26.10 2011 (sentenza divenuta irrevocabile il 21.11.2011) per il reato continuato di detenzione e vendita illecita di sostanze stupefacenti, ex artt. 81 c.p. e 73, comma 5, del d.P.R. n. 309/1990.

Il ricorrente invocava la non gravità del reato (si trattava di droghe leggere), per il quale è stata scontata per intero la pena nelle forme della detenzione domiciliare con autorizzazione al lavoro, la regolare presenza in Italia dal 1999, la costante attività lavorativa e il legame con fratello non convivente, ma titolare di carta di soggiorno UE.

La pericolosità sociale, dunque, non avrebbe potuto essere fondata esclusivamente sul fatto commesso nel 2011, sia perché ormai non più sussistente la pericolosità sociale in ragione del tempo trascorso, sia perché la condanna è stata interamente scontata; viceversa, il legame familiare con il fratello avrebbe dovuto essere tenuto in debito conto dall’Amministrazione.

Infine, il ricorrente lamentava che l’avviso ex artt. 7 e 8 della legge n. 241/90 era stato inviato per avere informazioni lavorative non per contestare il precedente penale.

2.- Con la sentenza in epigrafe, il ricorso è stato respinto con condanna del ricorrente alle spese di giudizio.

La sentenza argomentava con riguardo al carattere automaticamente ostativo della condanna per reati in materia di stupefacenti, ai sensi dell’art. 4, comma 3, del D.P.R. 309 del 1990, ampiamente affermato dalla giurisprudenza in considerazione del grave disvalore che il legislatore attribuisce ai reati in questione ai fini della tutela della sicurezza pubblica, ed in relazione ai quali si prescinde dalla entità della condanna riportata (che nel caso in esame è, comunque, di rilievo) e da eventuali riconoscimenti di attenuanti.

Quanto ai vincoli familiari, la sentenza rilevava che la presenza sul territorio nazionale del fratello del ricorrente, non è sufficiente a superare i gravi pregiudizi sopra evidenziati, anche per la natura stessa del vincolo familiare.

La violazione degli artt. 7 e 8 della legge n. 241/1990 non è stata ritenuta invalidante, atteso che il ricorrente non ha allegato, neppure in giudizio, elementi idonei a ritenere, anche in via meramente potenziale ed eventuale, che l’Autorità Amministrativa avrebbe potuto giungere a conclusioni diverse, ove fosse stato correttamente instaurato il contraddittorio procedimentale.

3.- Con l’appello in esame, il ricorrente denuncia l’erroneità e ingiustizia della sentenza di cui chiede la riforma.

4.- Si è costituita in giudizio l’Amministrazione appellata che ha chiesto il rigetto dell’appello.

5.- All’udienza pubblica del 2 luglio 2020, svoltasi in videoconferenza ai sensi dell’art. 84 del D.L. 18/2020, la causa è stata decisa.

DIRITTO
1.- L’appello è infondato.

2.- L’appellante deduce che il primo giudice non ha valutato la sua situazione personale, la permanenza in Italia, la situazione lavorativa e, in particolare, i rapporti col fratello, considerati apoditticamente “non sufficienti”, mentre si è concentrato esclusivamente sull’unica condanna penale, risalente nel tempo, facendone discendere un'”ostatività” di diritto per asserita pericolosità presunta valutata dal Legislatore.

Il ricorrente invoca, invece, il diritto a che la sua pericolosità sociale sia provata nello specifico; nella concretezza, tale pericolosità non sussisterebbe a fronte di una minima condanna risalente nel tempo e riportata a seguito di “patteggiamento”, scontata per intero in regime di detenzione domiciliare col permesso di lavorare, e, dunque, con conseguente pieno reinserimento sociale.

Ad avviso del ricorrente, sarebbe ingiusto anche il rigetto del motivo riguardante la violazione degli artt. 7 e 8 della L. 241/1990 perché si sarebbe invertito l’onere della prova: solo se si fosse instaurato il contraddittorio nel procedimento il ricorrente avrebbe potuto esplicitare le proprie buone ragioni.

3.- Il Collegio ritiene che la sentenza impugnata sia correttamente motivata con riguardo all’automatismo espulsivo previsto dall’art. 4, comma 3, del D.lgs.n. 286 del 1998 nell’ipotesi di condanna per detenzione e spaccio di stupefacenti e con riguardo alla non rilevanza, nel caso di specie, dei legami familiari addotti dal ricorrente.

Il TAR, richiamando anche la sentenza della Corte Costituzionale n. 227 del 2014, ha condivisibilmente affermato che l’intendimento del Legislatore di assumere a paradigma ostativo non certo la gravità del fatto, in sé e per sé considerata, quanto – e soprattutto – la specifica natura del reato, riposa “su una esigenza di conformazione agli impegni di ‘inibitoria’ di traffici riguardanti determinati settori reputati maggiormente sensibili”.

3.1.- Richiamati i precedenti, in termini, di questa Sezione (13/03/2019, n. 1673; 30 maggio 2016, n. 2251; 26 febbraio 2016, n. 797, e 10 aprile 2015, n. 1841), cui si rinvia ai sensi dell’art. 74 e dell’art. 88, lett. d), cod. proc. amm, il Collegio osserva che, sotto un primo aspetto, le condanne in materia di stupefacenti sono automaticamente ostative, anche una sola condanna, qualunque sia la pena detentiva riportata dal condannato, non rilevando la concessione di attenuanti o della sospensione condizionale della pena, né la modalità di esecuzione della stessa, e che l’appellante è stato condannato dal Tribunale di Brescia, con sentenza del 26.10.2011, divenuta irrevocabile il 21.11.2011, per il reato continuato di detenzione e vendita illecita di sostanze stupefacenti ad anni uno e mesi sei di reclusione e alla multa di euro 6000.

Sotto altro profilo, il Collegio osserva che il ricorrente non adduce legami familiari tali da giustificare la necessaria valutazione discrezionale dell’Amministrazione ed il bilanciamento degli interessi, a tutela dell’interesse della famiglia, in quanto il fratello non rientra tra i soggetti che compongono il nucleo familiare rilevante ex art. 29, comma 1, del T.U. immigrazione, e avendo chiarito la Corte Costituzionale, nella sentenza n. 202/2013, che il superamento dell’automatismo espulsivo e la conseguente necessità di valutare la pericolosità dello straniero – che l’art. 5, comma 5, del d. lgs. 286/1998 richiede per chi abbia ottenuto un formale provvedimento di ricongiungimento familiare, – può estendersi, pena l’irragionevole disparità di trattamento, solo a “chi, pur versando nelle condizioni sostanziali per ottenerlo, non abbia formulato istanza in tal senso” e non anche in favore di altri soggetti legati da vincoli familiari che non danno titolo al detto ricongiungimento (cfr. Sez. III, 30.5.2015, n. 2251).

3.2. – Quanto al motivo concernente la violazione delle norme sulla partecipazione al procedimento amministrativo, trova applicazione l’art. 21 octies, comma 2, della legge 241 del 1990, secondo cui la violazione procedimentale non comporta ex sé l’invalidità del provvedimento allorché il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.

Nel caso in esame, per la doverosità del diniego, derivante dall’art. 4, comma 3, del D.lgs. n. 286/1998, e per l’assenza di legami familiari rilevanti, il provvedimento è sostanzialmente legittimo e nessun diverso contenuto avrebbe potuto assumere a seguito dell’apporto partecipativo del ricorrente (Consiglio di Stato sez. III, 13/07/2017, n. 2935; sez. IV, 28/06/2016, n. 2902).

4. – Conclusivamente, l’appello va respinto e va confermata la sentenza impugnata.

5. – Le spese di giudizio si compensano tra le parti, considerata la peculiarità della vicenda.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta e, per l’effetto, dichiara legittimo l’atto impugnato.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell’articolo 10 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare il ricorrente.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 2 luglio 2020 con l’intervento dei magistrati:

Roberto Garofoli, Presidente

Paola Alba Aurora Puliatti, Consigliere, Estensore

Stefania Santoleri, Consigliere

Giovanni Pescatore, Consigliere

Raffaello Sestini, Consigliere

DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 28 LUG. 2020.